Cura, Formazione

Aprirsi grazie a un sorriso

Il ruolo del servizio di accoglienza in hospice. Il primo passo per stabilire un momento di relazione, a contatto con vissuti spesso complessi che richiedono professionalità, ma anche sensibilità e passione

L’etimologia delle parole svela sfumature inaspettate. È solo fermandoci a riflettere e scavando nell’apparente semplicità di un momento come quello dell’accoglienza in hospice che scopriamo quale sia l’enorme valore di quei primi passi che il paziente e il suo accompagnatore muovono all’interno di una struttura di cura. Quel che vedono, i primi sguardi che si incrociano e si incontrano, le parole e i tanti segnali sensoriali che guidano questa esperienza sono elementi che segnano una fase decisiva del percorso di cura: perché tutto è nuovo, tutto è ignoto, i vissuti alle spalle sono ancora carichi di ansia, di incertezza, di speranze.
La funzione dell’accogliere dà la prima fondamentale risposta a questo groviglio di sensazioni e il suo valore è tutto racchiuso nell’etimologia della parola, che discende dal latino ad-collìgere, “raccogliere presso di sé”. L’accoglienza non è dunque attendere che l’altro si manifesti, metta sul banco dell’accettazione cartelle di documenti, magari dall’altra parte di un vetro. È prima di tutto un gesto proattivo, un andare verso, un raccogliere e mettere al sicuro tutti quei pezzi di emozione che il paziente e il suo accompagnatore sentono vagare in ordine sparso. Chi accoglie è la prima persona che “raccoglie” questo vissuto e lo mantiene unito, cerca di dargli il giusto spazio, l’attenzione necessaria affinché nessun pezzo vada perduto. L’accoglienza è pertanto il primo e fondamentale gesto che apre l’ospitalità in struttura. Per chi entra per la prima volta negli hospice della Fondazione è prevista una prima accoglienza di natura medico-assistenziale, svolta dal medico e dall’infermiere che accompagnano il paziente nella propria stanza ed effettuano una visita clinico-assistenziale.

Nello stesso momento, una persona dedicata si occupa della presa in carico del caregiver, finalizzata alla registrazione e all’accettazione del paziente. In questa sede vengono fornite le informazioni più importanti relative alla struttura, agli orari, alle possibilità di accesso; si vedono e si compilano insieme le diverse pratiche relative al ricovero. Spiega Alice Ottaviani, Responsabile Gestionale della Fondazione: «Il nostro impegno, da sempre, è far sì che questa accoglienza non abbia alcun sapore burocratico. Coloro che se ne occupano – non solo per formazione, ma per predisposizione naturale – sono persone solari, pazienti, aperte, attente, capaci di esprimere piena discrezione oppure, là dove ne percepiscano il bisogno, di scambiare due chiacchiere con il caregiver per stemperare la tensione, per restituire un po’ di normalità a un momento che spesso è carico di preoccupazione, di angoscia, di sconforto». Ogni parola, azione, atteggiamento sono volti all’umanizzazione di un compito e di un ruolo prettamente tecnici; questa operazione rientra di diritto nella filosofia di “umanizzazione della cura” che viene applicata in maniera olistica a tutti gli aspetti dell’esperienza-hospice. Anche la compilazione di un modulo è l’occasione per mettersi in ascolto della persona e dei suoi bisogni: «La fretta non è una componente prevista», spiega Ottaviani: «La relazione deve essere rispettosa, ma al tempo stesso empatica, il tono di voce conta più delle parole che si pronunciano. Spesso l’accompagnatore è una persona anziana, che fatica a comprendere e a memorizzare subito le informazioni, per cui bisogna ripetere più volte gli elementi fondamentali e assicurarsi che tutto venga compreso in maniera chiara, senza lasciare aperti dubbi o incomprensioni». Le persone che si occupano dell’accoglienza, oltre al ruolo di front-office, supportano l’équipe medico-assistenziale nell’attività di segreteria o nella gestione dei contatti telefonici e sono quindi pienamente inserite nella dinamica operativa della cura. «Questo aspetto è importante, perché significa avere piena conoscenza di quanto avviene in struttura, di quali sono i vissuti dei pazienti: aiuta a interiorizzare quale sia lo spirito giusto per svolgere la propria parte di compito», conclude Ottaviani, con un “di più” non misurabile: «sensibilità, passione e capacità di aprirsi in un sorriso che faccia sentire accolti».

* Le due tirocinanti delle quali riportiamo la testimonianza hanno potuto maturare la loro esperienza in due centri di
riferimento mondiale per le cure palliative grazie al Grant Professionisti di Talento che la Fondazione Deutsche Bank Italia mette a disposizione dei discenti più brillanti iscritti ai Master ASMEPA.
Per informazioni sui percorsi di studio e sul grant: www.asmepa.org

Clinica Universidad de Navarra
Un avvicinamento fluido alle cure palliative
L’ingresso in Hospice è spesso reso più fluido e graduale da un percorso di continuità con le strutture che prendono
in carico i pazienti nella fase di cura attiva. Questa è l’esperienza raccontata da Eleonora Taberna, in occasione
del suo tirocinio presso la Clinica Universidad de Navarra a Pamplona.
«Presso la Clinica Universidad de Navarra, dove ho svolto il mio periodo di tirocinio, gli studi e gli ambulatori di medicina palliativa sono all’8° piano, dove si trovano anche la degenza di oncologia medica e gli ambulatori del day
hospital oncologico. Le attività dei palliativisti e degli oncologi convivono in maniera molto fluida: non ci sono divisioni nette tra gli ambulatori dove visitano gli oncologi e quelli dove visita l’équipe di cure palliative; esiste un’unica area
con diversi ambulatori che vengono condivisi. In questo modo, anche i pazienti che non sono in carico all’équipe di cure palliative, diretta dal Professor Carlos Centeno Cortés, si abituano a vedere i palliativisti e il loro lavoro. Questa
conoscenza è molto importante: qualora un giorno venissero presi in carico dall’équipe di cure palliative non vivrebbero il passaggio con ansia, al contrario di quello che spesso accade nelle nostre realtà sanitarie e di cura dove i servizi sono anche strutturalmente divisi».

Eleonora Taberna*, Medico, studentessa del Master Universitario di II livello in Cure Palliative e Terapia del Dolore di ASMEPA

 

MD Anderson Cancer Center
Una Communication Board per entrare in relazione
Sentirsi accolti passa anche dall’essere presi in carico come persona, con le proprie caratteristiche e qualità che non si esauriscono con l’elenco dei sintomi. Lo racconta Eva Paoletti nella sua esperienza di tirocinio presso il MD Anderson Cancer Center di Houston.
«Ho svolto il mio tirocinio sotto la guida del Professor Eduardo Bruera, Direttore del Department of Palliative, Rehabilitation, & Integrative Medicine. La cosa che mi ha più colpito nelle stanze della Clinica è la “Communication Board”, una lavagna ben visibile e presente in ogni camera, dove vengono scritti il nome con il quale il paziente preferisce essere chiamato, il nome del caregiver, gli obiettivi che il paziente si prefigge per la sua degenza, le informazioni e le domande per l’équipe di cure palliative, chi sono i professionisti che si occupano del paziente e come riconoscere gli operatori dal tipo di divisa. È uno strumento semplice, che con poco riesce a semplificare e rompere quelle barriere di comunicazione che spesso creano angoscia nel paziente e nei suoi familiari».

Eva Paoletti*, Infermiera, studentessa del Master Universitario di I livello in Cure Palliative e Terapia del Dolore di ASMEPA

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