Cura, Diritto e Normativa, Incontri

La Cura? 
È una questione di famiglia

Nel percorso di cura i familiari del paziente giocano un ruolo determinante: da potenziale limite, ricco di conflitti e tensioni emotive, possono e devono diventare alleati chiave dell’équipe di cura. Per guidare questa evoluzione esistono strumenti e modelli di approccio che arricchiscono le professionalità delle cure palliative. A partire dalla capacità di mettersi in dialogo.

Claudio Cartoni, Coordinatore Cure Palliative e Domiciliari, dell’UOC Ematologia del Policlinico Umberto I, Roma, la definisce «la costellazione della cura». Un’espressione che descrive bene la relazione tra pianeti – diversi ma interdipendenti, che gravitano in orbite che si intersecano pur seguendo ognuna il suo corso – che si crea tra l’équipe assistenziale, il paziente e la famiglia in Hospice e nelle cure palliative in genere. Una situazione dinamica, dove ciascuno dei tre poli è mosso da ragioni, necessità, emozioni e connessioni che procedono per aggiustamenti progressivi.

Se i professionisti sanitari e, dal lato op- posto, il paziente seguono una traiettoria più lineare, hanno ruoli in un certo senso definiti, la variabile più complessa da decifrare è quella della famiglia. Portatrice di bisogni ampi e profondi, chiamata a gestire temi e decisioni rispetto ai quali non ha una preparazione specifica e con un vissuto alle spalle spesso complicato da un lungo percorso di malattia del proprio caro, è costretta in una fase critica ad affrontare in maniera netta questioni spesso latenti da anni, nodi mai sciolti, non-detti che non possono più essere taciuti. Carica di una responsabilità importante, che può generare conflitti. «In Hospice, la psicologa che è parte dell’équipe di cura ha sempre un colloquio con almeno un familiare dopo uno o due giorni dal ricovero del paziente, quando la famiglia ha già iniziato a focalizzare il contesto in cui si trova il proprio caro.

Si tratta di un colloquio conoscitivo, che svolgiamo di preferenza senza la presenza del paziente e che ci aiuta a comprendere il tipo di “carico assistenziale” vissuto dalla famiglia nelle settimane o nei mesi precedenti. Si tratta di un momento fondamentale per leggere le dinamiche che si esprimono nella quotidianità del rapporto, in Hospice, tra famiglia e paziente e tra famiglia ed équipe», spiega Manuela Carlini, dal 2007 psicologa all’interno degli Hospice della Fondazione, sottolineando come uno dei compiti fondamentali dell’équipe riguardi proprio «la gestione del cari- co emotivo della famiglia».
«Noi medici siamo come dei broker che mettono in contatto soggetti portatori di interessi che non sempre collimano», aggiunge Cartoni, calcando la voce su una parola, “interessi”, che governa questa costellazione. Il ruolo della famiglia e le relazioni che si instaurano rientrano infatti, oltre che in una dinamica tra professionalità ed emotività, in un preciso contesto normativo definito dalla legge 219 del 2017 e in particolare dagli articoli relativi al cosiddetto “consenso informato” sui limiti, diritti e ambiti di operatività della famiglia nel contesto di cura. La normativa riconosce il ruolo della famiglia, «e questo è un grande passo in avanti» osserva Cartoni, ma indica anche che il familiare ha voce in capitolo solo se viene accordato un permesso da parte del paziente, sia rispetto al diritto all’informazione sia in termini di scelte terapeutiche e assistenziali.

«Per questo è fondamentale che i professionisti delle équipe mediche conoscano la legge», prosegue Cartoni, perché contiene elementi che, se ben esplorati, ci aiutano davvero a ottenere l’obiettivo di trasformare quella che in alcuni casi è una barriera, la famiglia, in uno strumento di supporto per il paziente e per l’équipe medica». Per farlo, devono mettersi in gioco attraverso il dialogo, la comunicazione: è infatti «la stessa legge a indicare che “il tempo di comunicazione è tempo di cura”», ricorda Cartoni. «Un tempo di comunicazione che non può essere rubato nei corridoi o lasciato al caso», ma deve essere istituzionalizzato. Il modello è quello, importato dai Paesi anglosassoni, della cosiddetta Family Conference: uno spazio temporale e fisico definito, all’interno del quale l’équipe incontra i familiari per affrontare specifiche tematiche legate al percorso di cura. «Un incontro che deve essere preparato e convocato definendo il tema, gli obiettivi e la durata, perché metodologicamente dare dei confini significa “costringere” tutte le persone coinvolte a lavorare per il raggiungimento di uno specifico risultato. Non si risolverà tutto in un singolo incontro, ma è importante uscire dalla Conference con la sensazione di avere raggiunto un risultato. Quando si riesce a istituzionalizzare questo strumento si fa davvero un passo avanti: è molto potente e se ben gestito porta alla nascita di alleanze terapeutiche positive tra équipe e familiari». È così che «in Hospice il familiare torna a fare il familiare», sintetizza Carlini: «Non ha più sulle spalle il carico di cura che ha dovuto gestire nelle fasi precedenti di malattia e può quindi esprimere piena- mente la funzione di sostegno affettivo, di rassicurazione e vicinanza che è ciò di cui la persona malata ha più bisogno». Le testimonianze, numerose, di come questo percorso fatto di attenzione e competenza professionale sia un valore che lascia il segno, stanno nelle parole di chi ha attraversato questa esperienza all’interno degli Hospice della Fonda- zione Seràgnoli. «In Hospice abbiamo trovato persone, professionisti preziosi, benevoli, dotati non solo di eccezionale competenza, ma anche di grandissima umanità», racconta Chiara, figlia di una paziente. «Nella tristezza di una condizione di disabilità che, per una donna energica e autonoma com’è sempre stata mia madre, era terribile da sopportare, essere in Hospice ha giovato a lei e portato sollievo a noi, mia sorella ed io, che ci siamo trovate impreparate di fronte a questa situa- zione. Ci raccontava degli incontri con le volontarie e le piaceva tanto es- sere in mezzo al verde che circondava la sua stanza. I suoi due ricoveri sono stati un aiuto provvidenziale. È stato un percorso irto d’ostacoli, ma senza la Fondazione sarebbe stato ancora più impervio. Allarga il cuore sapere che esiste una realtà di questo tipo, oggi».

Una relazione, per legge
A normare il ruolo della famiglia del paziente all’interno del percorso di cura e i rapporti tra familiari ed équipe, sono alcuni articoli della Legge 219 del 2017, conosciuta come “legge sul consenso informato”, ma che va anche oltre questo tema particolare. Si tratta infatti di una normativa fondamentale e attesa per lungo tempo, che traccia l’orizzonte di quegli elementi di relazione – per esempio l’istituzionalizzazione del tempo dell’ascolto come tempo di cura, o la necessità per l’équipe di avere skill di comunicazione adeguati – che fanno fare un salto di qualità all’umanizzazione della medicina e della cura. La legge prevede che nella relazione di cura siano coinvolti «se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo». Inoltre, «può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole».

IL METODO DELLA FAMILY CONFERENCE
La Family Conference è un incontro istituzionalizzato, all’interno degli spazi di cura, tra paziente, familiari ed équipe curante, con l’intento di condividere l’approccio terapeutico e di stabilire gli obiettivi di trattamento in una situazione che necessita di cure palliative. È durante questo colloquio che vengono discussi iter terapeutici e sondate le aspettative e i valori personali che definiscono la qualità di vita del malato. L’utilizzo della Family Conference nel coordinamento intra e extra ospedaliero permette di ottimizzare gli interventi terapeutici in tutti gli ambiti.

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