Incontri, Solidarietà

La fiducia? È come l’acqua

Professore, partiamo dall’attualità più stringente. In occasione di due recenti crisi, l’emergenza da Covid e la guerra in Ucraina, è emerso ancora una volta il ruolo fondamentale delle realtà del Terzo Settore nell’approntare risposte rapide ed efficaci a bisogni sociali spesso drammatici. Perché ci vuole sempre una situazione di emergenza per riconoscere questo ruolo e si perde invece questa percezione nelle “situazioni ordinarie”?
Nella situazione ordinaria non percepiamo lo sforzo che alcune persone compiono per conservarla come tale, perché appunto “tutto va bene”. La nostra attenzione è invece attirata dalla crisi, da qualcosa che altera lo status quo e la “normalità” a cui siamo abituati. C’è una storiella raccontata da David Foster Wallace in un discorso rivolto ai laureati del Kenyon College che coglie il punto: «Ci sono due giovani pesci che nuotano insieme e incontrano un pesce più anziano che sta nuotando nell’altra direzione e che fa loro un gesto, dicendo: “Buongiorno, ragazzi. Com’è l’acqua?”. I due pesci più giovani nuotano per un po’, e alla fine uno di loro guarda l’altro e chiede: “Che diavolo è l’acqua?”». Di fatto ci siamo comportati come i pesci. “Salute” e “pace” hanno grossomodo caratterizzato la vita dei paesi occidentali negli ultimi decenni. Quando sono state messe in discussione si è aperta nelle nostre coscienze una crisi, con le emozioni negative che ciò comporta, ma ci si è anche accorti che per conservarle era necessario il lavoro di molte persone.

Lo specifico del Terzo Settore è operare per una società basata su rapporti fiduciari. Che è altro dal mercato (rapporti basati sullo scambio economico) e dal Pubblico (rapporti regolati da leggi e senso civico). Può davvero la fiducia nell’altro essere alla base della relazione e del tessuto sociale o è utopia?
Da un certo punto di vista lo è, di fatto. Se non ci fidassimo completamente degli altri non usciremmo nemmeno di casa. Abbiamo bisogno della fiducia per la nostra vita pratica e per coltivare le relazioni personali. È interessante che una filosofa, Annette Baier, abbia utilizzato un’immagine molto simile a quella di Foster Wallace. Dice Baier che abitiamo continuamente ambienti contraddistinti da fiducia, così come viviamo nell’atmosfera, e ci rendiamo conto della sua importanza nello stesso modo in cui siamo consapevoli dell’importanza dell’aria quando scarseggia o è inquinata. Da un lato, quindi, non possiamo fare a meno della fiducia. Dall’altro, l’impegno è di estenderla a quante più relazioni possibili. Ma sempre Baier ricorda che la fiducia dipende dalla buona volontà degli altri, non è unilaterale. Un eccesso di fiducia può essere deleterio se non c’è una reciprocità da parte della persona in cui la riponiamo.

Quanto la natura umana è portata a credere in relazioni basate sulla fiducia? O è un fatto culturale, non previsto dal nostro DNA?
Numerosi studi empirici mostrano come la fiducia (analogamente a ogni nostro atteggiamento) abbia basi biologiche, anche complesse, e non possa essere ridotta a una mera disponibilità ad assumersi rischi. Quindi è vero che la fiducia fa parte della “natura umana”, del repertorio biologico di cui è dotato l’essere umano. Ma un conto è descrivere come funziona l’organismo umano, altro è costruire un’etica della fiducia. Sapere che siamo “capaci di fiducia” è importante e rilevante, ma può darsi che la nostra tendenza a credere in relazioni basate sulla fiducia sia sistematicamente vanificata dall’atteggiamento altrui. L’impegno è quindi quello di mostrare che una società basata sulla fiducia sia desiderabile e, in caso di risposta affermativa, predisporre quelle “infrastrutture sociali e istituzionali” che consentano di realizzarla. C’è quindi sia un aspetto naturale sia un aspetto sociale da prendere in considerazione.

In Italia operano costantemente 6,6 milioni di volontari, in vari ambiti. Un impegno che non è mosso da un’attesa di ritorno economico ma da un altro e diverso sistema valoriale. Qual è la “filosofia morale” che muove queste persone? È un sistema valoriale destinato a rimanere ancillare?
Parto da una considerazione sui numeri. Sei milioni equivalgono a circa il 10% della popolazione attuale in Italia, se non erro. Non mi sembra poco e azzarderei a dire che una cifra del genere conta anche qualcosa dal punto di vista del PIL. C’è quindi anche un valore economico (per lo meno potenziale), oltre che sociale, nell’attività svolta da questi sei milioni di persone. Per venire al piano più specificatamente morale, non so da cosa effettivamente sono mosse.
Probabilmente gli scopi e le ragioni variano da persona a persona. Mi sembra più interessante cosa essi esprimono con le loro scelte e le loro azioni e credo che si possa affermare che trova concretezza nella loro attività un’etica della cura, un’apertura ai bisogni altrui e un tentativo di valorizzare le connessioni possibili tra gli individui. Riconoscono, cioè, l’interdipendenza che ci caratterizza e rende possibile la nostra vita. E con questo, direi, che torniamo a quando dicevamo prima.
La fiducia funziona se si riconosce questa dimensione di interdipendenza, perché ho fiducia in te se tu sei capace di dimostrare buona volontà, apertura e sensibilità morale nei miei confronti. Altrimenti subentra la diffidenza. Per questo direi che l’attività dei volontari ci indica una modalità peculiare di connetterci l’uno con l’altro.

Intervista a

Matteo Galletti

È professore associato di Bioetica presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze. Si è occupato di questioni relative agli sviluppi dell’etica delle virtù nella tradizione dell’etica analitica, del rapporto tra psicologia morale filosofica e psicologia empirica, del dibattito sulla responsabilità morale e sull’etica della manipolazione. Nell’ambito dell’etica applicata, ha pubblicato numerosi saggi sulla bioetica di fine vita, sulle questioni morali nell’ambito della genetica, sul biopotenziamento umano e sull’etica animale.

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