Cura

Un vero atto d’amore

In una cultura come quella Occidentale – e ancor più in quella Mediterranea – nella quale il cibo, la nutrizione, sono forse dopo il respirare l’elemento più immediato e concreto che indica il desiderio di vita, che significato assume il cibarsi per chi si trova in una condizione di inguaribilità? Come conciliare un atto di vita con una quotidianità e una traiettoria sempre più accelerate verso uno spazio nel quale la vita è sempre più flebile? Comprendere e armonizzare i significati del cibo – portatore di energia e innesco di socialità, comunque in generale elemento di piacere – con il senso di una condizione di decadimento progressivo delle attese e dei bisogni anche fisici è senza dubbio uno spazio di riflessione filosofico, che ha però una quotidiana applicazione pratica che riguarda tanto le strutture di ricovero quanto i familiari dei pazienti all’interno di percorsi di cure palliative.

«La condizione psicofisica e il tipo di malattia, così come il suo stato di avanzamento, determinano i vissuti del paziente legati ad appetito, percezione dei sapori, consistenza dei cibi, voglia o fatica nel mangiarli. Il paziente può perdere l’interesse nei confronti del cibo, essere demoralizzato quando perde il gusto o quando sente che i sapori che percepisce non sono più quelli di prima», spiega Romana Schumann, Responsabile e Supervisore del Settore Psicoterapico presso il Centro Gruber, Centro di Dietetica e Cultura dell’Alimentazione, specializzato nelle diverse problematiche legate alla nutrizione e ai disturbi alimentari.

«Va anche considerato che la difficoltà di alimentarsi può generare la paura di indebolirsi, di perdere forze per reggere le cure. La perdita dell’appetito viene vissuta come un’ulteriore privazione di momenti di piacere e di socialità con familiari e amici. Può aumentare la sensazione di essere esclusi dalla vita degli altri o di essere un peso per loro, di frustrare il loro desiderio di accudimento tramite il cibo. L’obiettivo principale dovrebbe essere in primo luogo quello di rendere l’esperienza del pasto accettabile e – fin dove possibile – gradevole per il paziente. Questo comporta delicatezza nell’indagare le sue difficoltà, ovvero gusto, appetito, deglutizione, digestione, affaticamento durante il pasto, lasciando margine per un dignitoso potere di scelta. L’alimentazione orale dovrebbe essere sostenuta quando possibile, in base al desiderio di un individuo. Il cibo e il momento del pasto possono dare comfort, piacevolezza se possibile, e un senso di autonomia e dignità.

La priorità più importante è quella di fornire cibo secondo i desideri dell’individuo.

Occorre fare sforzi per migliorare il momento del pasto considerando la sua valenza relazionale ed emotiva: mantenere il gesto può associarsi a un vissuto fatto di “normalità”, scandire i tempi di ricovero, creare momenti di condivisione con i parenti, considerare i cibi come strumenti che danno conforto (cibi “della memoria” o cibi della famiglia collegati a momenti lieti della vita). È importante non forzare al consumo di cibo, anche un piccolo assaggio a volte è sufficiente per generare una reazione di conforto».

Una “normalità” ancora più complessa da gestire, quando la persona si trova già sradicata dalla propria consuetudine, come nel caso di un ricovero in una struttura ospedaliera o in un hospice. Come spiega Donatella Ballardini, Direttrice Sanitaria del Centro Gruber, «il personale che assiste le persone ricoverate in hospice si trova spesso di fronte a problemi etici riguardanti l’alimentazione e l’idratazione nel fine della vita e sperimenta come sia importante distinguere fra desideri personali e tradizioni culturali e religiose da un lato e questioni nutrizionali relative alle problematiche mediche dall’altro. Dilemmi clinici che coinvolgono nutrizione e idratazione si verificano quando questi aspetti si contrappongono. Vi è un dovere etico di base che è quello di proteggere comunque la vita, riconoscendo che l’individuo ha il diritto di scegliere il proprio piano di trattamento e quindi anche la propria nutrizione.

Ne deriva la necessità di curare i menù rivolti ai degenti che permettano di rispettare sia le esigenze della persona sia le esigenze della cura.

In particolare, il professionista che si occupa degli aspetti collegati alla ristorazione sanitaria deve essere consapevole di questo dualismo, assistendo senza giudizio e senza pressioni».

Mantenere fin dove possibile un minimo di nutrizione per bocca entra a far parte di quell’investimento sulla qualità della vita che non può prescindere da questo aspetto, «pur considerando», osserva Ballardini, «che le persone in fine vita non sentono la fame e frequentemente neppure la sete».

I “significati allargati” del cibo e della nutrizione hanno un valore forte, naturalmente, anche per i familiari e in genere per i caregiver, per i quali la consuetudine del trovarsi a tavola con il proprio caro viene interrotta e deve essere rimodulata rispetto alla nuova condizione di malattia avanzata.

«Le memorie, i ricordi e gli affetti che il cibo porta con sé emergono a livello psicofisico tanto per il paziente quanto per le persone che gli sono vicine, naturalmente, ma in modo diversificato: ciascuno si confronta con una condizione di vita sconosciuta e attiva sensazioni personali che riportano i propri frammenti di passato nel presente. La delicatezza necessaria per gestire l’alimentazione personalizzata in questa fase di vita deve essere estrema. Chi vuole prendersi cura potrebbe essere mosso da motivazioni diverse rispetto a chi cerca, come paziente, un equilibrio personale quotidiano. Il nutrire come momento naturale di relazione, come dare e ricevere, rimane invariato; cambiano solo gli alimenti e le quantità.
Il rispetto delle esigenze determinate da stati psico-fisici che mutano velocemente è il vero atto d’amore».

I menù degli Hospice Seragnoli

Il Centro Gruber ha studiato e realizzato i menù proposti ai pazienti degli Hospice Bentivoglio e Casalecchio della Fondazione Seràgnoli. Le scelte effettuate si basano su più stagionalità e presentano una grande varietà di proposte, oltre alla possibilità di menù personalizzati variati in consistenza per le esigenze dei singoli pazienti.
La ristorazione negli Hospice risponde a obiettivi chiari: assicurare un apporto nutrizionale adeguato alle varie tipologie di pazienti; stimolare l’appetibilità e rispettare la valenza psico-affettiva degli alimenti; garantire una selezione qualitativa degli alimenti che tenga conto dei sistemi di produzione, trasformazione e conservazione; favorire il rapporto parentale anche attraverso la condivisione dei pasti.

 

Nutrire per essere genitori?

«Nella traiettoria di malattia che riguarda un paziente pediatrico, la perdita della capacità di alimentarsi è uno degli eventi più traumatici che i genitori avvertono nel proprio bambino, e rispetto a loro stessi», osserva il dottor Sergio Amarri, Responsabile sanitario del Day Care di Cure Palliative Pediatriche della Fondazione Hospice Seràgnoli: «La capacità di nutrire il proprio figlio è considerata un tutt’uno con la capacità di essere genitori».
Certo, premette Amarri, occorre fare una distinzione iniziale tra bambini che non sono mai stati in grado di nutrirsi in maniera naturale e bambini che hanno gradualmente perso l’autonomia col progredire della malattia. In generale, tuttavia, se si considera l’impatto che la nutrizione ha sull’equilibrio della relazione tra bambini e genitori e sulla psicologia degli stessi genitori, esiste una questione istintiva e culturale che condiziona qualsiasi analisi:

«In tutte le culture c’è un legame inscindibile tra nutrizione e vita. Come medico, mi viene più naturale pensare che il respiro sia correlato con la vita, mentre in particolare per le madri il concetto di vitalità è legato al nutrire il proprio figlio. Accompagnare i genitori nel percorso di consapevolezza sulla necessità di interrompere l’alimentazione naturale e passare a una nutrizione indotta è estremamente complesso. Vediamo bambini che hanno problemi enormi, molto più grandi di quelli dati dall’alimentazione, eppure i genitori si adattano più facilmente a gestire – per esempio – continue crisi epilettiche convulsive che non ad accettare il fatto di non poter più nutrire».

Proprio per gestire al meglio questa resistenza psicologica e culturale, il servizio di Day Care di cure palliative pediatriche della Fondazione garantisce la presenza di professionisti con competenze nutrizionali, dietologiche e logopedistiche.

«L’obiettivo è aiutare i genitori ad affrontare la situazione da un altro punto di vista, quello del bambino. Far loro capire che tentare di alimentare naturalmente un bambino che non riesce a deglutire significa fargli provare un senso di soffocamento e che il gesto amorevole del nutrire si trasforma in un momento di stress e dolore che compromette la qualità della vita del piccolo. È un percorso di apprendimento e autoconsapevolezza graduale, che impone agli adulti di cambiare ottica, ma che permette una cura più adeguata per i piccoli pazienti».

Intervista a

Donatella Ballardini

Medico, Direttrice sanitaria del Centro Gruber, ha come principali aree di interesse la ricerca, la clinica e la didattica nei Disturbi del Comportamento Alimentare e del Peso, sia dell’adulto sia del bambino. È esperta di integrazione fra discipline mediche e psicoterapiche (approcci terapeutici interdisciplinari) e specializzata nelle tecniche della Riabilitazione Psiconutrizionale.

Intervista a

Romana Schumann

Psicologa e psicoterapeuta, è Responsabile e Supervisore del Settore Psicoterapico presso il Centro Gruber. È specializzata in ricerca e didattica sull’integrazione della Psicoterapia Cognitiva e Cognitiva- Comportamentale, individuale e di gruppo in setting interdisciplinare, la Terapia Motivazionale, la Traumaterapia, il Counselling di Coppia e il Counselling familiare.

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